DESCRIZIONE - Partiamo dalla
chiesa di San Antonio all'incrocio tra via Riosecco e via Praforte (quota 241mslm), incamminandoci su quest'ultima lungo la strada asfaltata che sale ripida e bella in direzione del borgo quasi completamente abbandonato di
Praforte che raggiungeremo dopo 1,9km (10%): approfittiamo per visitare ciò che resta di questo pittoresco borgo (
qui sotto la particolare storia della sua evacuazione) che attraverseremo per intero, fino a continuare sulla parte opposta lungo una stretta mulattiera che giunge in breve ad un incrocio ove saliremo a sinistra lungo il largo sentiero lastricato contenuto tra i muri a secco in pietra, che ci accompagna verso la
chiesa di San Vincenzo, circa 200 metri dietro la quale andiamo a visitare il minuscolo
cimitero della borgata. Rientriamo sui nostri passi per riportarci verso la chiesa e salire a destra per riportarsi sulla strada asfaltata che sale da Travesio: qui molto evidente è l'
ancona di San Antonio, dietro la quale prende inizio il sentiero
CAI 850A che sale in direzione dell'
ancona della SS Trinità che troveremo dopo 650 metri (10%) poco dopo Ciucul Taront (533mlsm). Dopo circa 200 metri il sentiero confluisce su una mulattiera che seguiremo per altri 400 metri, quando nei pressi di una curva potremo scegliere se continuare a salire lungo la comoda ma più lunga mulattiera o accorciare un tornante e salire lungo il più impegnativo ma anche più panoramico sentiero. La salita continua semplice e via via sempre più spetttacolare per la vista sulla pianura friulana tenendosi a sinistra del
Col Manzon (738mlsm) fino a giungere nei pressi del bivio con il sentiero CAI 850A (che continua dritto verso casera Davass) ed il
CAI 850 che si addentra a destra verso casera Sinich. Il sentiero si presenta ondulato con modesti dislivelli, passa in alcuni tratti con muri a secco in pietra, altri con una recinzione spinata esiti delle proprietà militari, passa a fianco di ruderi di vecchi stavoli (casera Friz la più visibile ed integra), infine si conclude a
casera Sinich (849mslm), dove all'interno si trova un rubinetto da cui dovrebbe uscire acqua. La casera contiene solo alcuni tavoli all'esterno ed interno, con un caminetto interno: dormire è possibile solo in caso di esterma necessità. Oltrepassando davanti alla casera individuiamo una mulattiera che scende tranquilla e ci riaccompagna dopo un lungo tratto (3,6km, pendenza media -10%) fino alla strada asfaltata che sale da Praforte, che raggiungeremo per poi rientrare al punto di partenza.
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LA STORIA DI PRAFORTE - DI GIUSEPPE RAGOGNA - Praforte è una borgata che si trova abbarbicata sulle pendici orientali del monte Ciaurlec, a 350 metri d’altezza, in comune di Castelnovo del Friuli. Lì il tempo si fermò qualche decennio fa.
Nonostante lo stato di abbandono, mantiene ancora un’impronta architettonica che resiste all’incuria: gli edifici di sasso, i ballatoi in legno, i terrazzamenti costruiti ad arte per coltivare varietà autoctone di alberi da frutta e viti, le mulattiere acciottolate, i muretti a secco, la chiesetta di San Vincenzo con accanto un ordinato cimitero. Nei periodi migliori era forte il fascino di un’orgogliosa identità.
Eppure, la vita si interruppe attorno alla metà degli anni Sessanta a seguito di un ordine perentorio di sgombero. Le poche famiglie rimaste non riuscirono a fronteggiare la dura legge delle carte bollate. Issarono bandiera bianca e se ne andarono.
Non c’era nulla da fare al cospetto di un atto amministrativo che metteva nero su bianco i pericoli fino a quel momento sussurrati: una frana minacciava l’incolumità delle persone. I sopralluoghi si fecero sempre più frequenti, anche se nessuno voleva credere a rischi particolarmente gravi.
Per carità, il territorio era vulnerabile sotto il profilo idrogeologico: piccoli smottamenti si registravano nei periodi delle grandi piogge. E sono tuttora ricorrenti in quelle aree fragili. Ma quelli erano gli anni successivi alla tragedia del Vajont. Nessun amministratore pubblico era disposto ad assumersi un carico eccessivo di responsabilità.
La borgata aveva già di per sé altri problemi. Per esempio, era inarrestabile l’esodo dovuto dalle condizioni di vita difficile. Agli inizi del Novecento i dati anagrafici registravano circa 200 anime. Gli abitanti vivevano con quel poco che la montagna offriva, ingegnandosi a fare un po’ di tutto.
Campavano con un po’ di agricoltura e con qualche piccolo allevamento. Per lungo tempo, i prodotti venivano piazzati dalle “rivindicules cjastelanes” nei mercati sparsi nella pedemontana. I contatti erano garantiti da una parte con Travesio (collegamenti più comodi) e dall’altra con Almadis, poco distante da Paludea (capoluogo di Castelnovo), dove la latteria sociale era gestita proprio dal casaro che scendeva da Praforte.
Le persone più ingegnose mantennero viva la tradizione degli scalpellini, molto diffusa nell’intero territorio. I più bravi abbandonarono il piccolo borgo natio per emigrare in giro per il mondo. Così, la grande fuga assottigliò progressivamente le presenze, lasciando in loco chi proprio non voleva saperne di recidere le radici, soprattutto per motivi affettivi.
Nel dopoguerra arrivò anche la luce elettrica, ma non cambiò più di tanto la vita dei residenti. Ormai dell’antico paese era rimasto ben poco, non più di una quindicina di famiglie. Di per sé era un nucleo autonomo, minacciato più dai fenomeni irresistibili della “modernità”, che da quel maledetto pericolo di frane citato nell’ordinanza di sgombero.
Anzi, con il senno di poi, i rischi di smottamento vennero ben presto archiviati nel libro della Storia tra i “pretesti” ben orchestrati dalle autorità per sbarazzarsi di un’esigua presenza ingombrante di persone, soprattutto anziane. Si sa, i servizi costavano e il Comune non navigava nell’oro.
Però, l’emergenza frane proprio non convinceva. Guarda caso, in quell’area si sviluppava un’intensa attività militare. Ecco la vera questione: il Ciaurlec era di fatto uno dei poligoni più trafficati d’Italia, un’area strategica ben inserita nella desolata landa orientale.
Negli anni della “guerra fredda” i cannoneggiamenti erano martellanti, prolungati e pericolosi. «Spesso qualche ordigno scoppiava proprio vicino alle abitazioni, provocando le vivaci proteste della gente» ricorda ancora Renato Cozzi, che di Praforte (e dell’intera Val Cosa) è un testimone fondamentale, uno dei pochi rimasti a raccontare storie di generazioni di montanari.
«Mi ricordo di un maiale ucciso dalle schegge di un ordigno - rivela fra tanti altri aneddoti - e di altri incidenti accaduti in una borgata troppo esposta alle attività addestrative». Dove la natura non infierì, lì ci pensò l’uomo.
Lo “sfratto coatto” di una micro-comunità, ormai senza voce, fu quindi dettato più da rigide logiche militari che da ragioni legate ai capricci del terreno. Così, quando la resistenza dei pochi abitanti si affievolì, e la rabbia si trasformò in rassegnazione, scoccò implacabile l’operazione dello sgombero.
Gli sfollati furono sistemati provvisoriamente a Travesio, poi trapiantati a Paludea, nel modesto agglomerato di case a schiera vicino al municipio; un “borgo artificiale”, senz’anima, denominato “Praforte Nuovo”, costruito con i soldi della Regione.
Nessuno ritornò a vivere stabilmente nelle vecchie dimore: le poche presenze non sono nulla di più di una semplice “toccata e fuga”, giusto per seguire l’orto e qualche piccolo allevamento di pecore e di galline. Poca roba.
Alla fine, l’unica a non muoversi fu la frana che, secondo gli esperti e gli autori dell’ordinanza di sgombero, si sarebbe dovuta manifestare come un terribile Orcolat in un luogo particolarmente fragile. Invece, nonostante gli scossoni provocati dalle tremende cannonate durante le esercitazioni militari, non si verificò nulla di sconvolgente.
«Al limite - ricordano alcune testimonianze - gli smottamenti potevano interessare un paio di case, quelle più esposte sul costone del monte, non certo l’intera borgata che ha dimostrato di essere solida, passando indenne anche attraverso il disastroso terremoto del 1976».
La memoria di Praforte è sbiadita dal tempo: una fiammella di candela che si sta spegnendo. E non essendoci più le ultime “sentinelle”, gli spazi sono aggrediti dall’invasione della boscaglia. La natura non si ferma. Arbusti e rampicanti continuano a coprire le case più diroccate, tant’è che alcune pareti di sassi sembrano reggersi soltanto per i cespi d’edera che le avvinghiano.
Da tempo anche il poligono ha cessato ogni attività. È semplicemente un brutto ricordo per la popolazione che fu costretta a conviverci. Nella borgata fantasma domina il silenzio. Praforte è ormai un monumento alla memoria con al centro, appeso a un palo, in bella vista, un cartello che chiude una storia assai tormentata: «Non c’è nulla da rubare, ci hanno rubato tutto».